Io sono ambizioso, io sono fallito, io sono libero, io sono materialista… Io sono.
Sentiamo il bisogno di definirci, di racchiuderci in un aggettivo o in un sostantivo. Non possiamo permetterci di non sapere chi siamo, sarebbe devastante. Nella società, scegliamo la maschera del lavoratore che crediamo ci rappresenti meglio: posso dunque definirmi medico, giornalista, artista, ingegnere, e così via, perché dobbiamo essere classificabili nel catalogo delle professioni. Questo processo ci inserisce in un percorso formativo che ci conforma a standard riconoscibili, facendoci identificare con essi.
Quando pensiamo a noi stessi, l’incarnazione dell’”io sono” non ci lascia scelta. Una volta definita la nostra identità, diventa difficile uscirne. Se affermo “io sono ambizioso” o “io sono materialista”, le mie azioni tenderanno a confermare queste convinzioni. Questo perché non sopportiamo l’idea di non sapere chi siamo, e quindi agisco in modo da attrarre situazioni che rafforzano ciò che penso di essere. Se mi definisco materialista, darò più valore agli oggetti che alle persone, o vivrò nella logica del possesso. Se mi percepisco come fallito, cercherò esperienze lavorative e relazionali che non faranno altro che confermare questa visione.
Potrei, ad esempio, scegliere un lavoro che non mi soddisfa, convincendomi che sia inutile cambiare, trovando mille giustificazioni sul perché nessun’altra azienda mi assumerebbe. Oppure rimango in una relazione che mi svaluta, perché sento che, se fossi felice, andrei contro l’immagine del fallito che mi sono ho costruito. Non sapere chi siamo ci angoscia; quindi, anche se non ci piace, preferiamo essere qualcuno piuttosto che nessuno, purché riconoscibile.
Quando Selene Calloni Williams afferma che la realtà non esiste, all’inizio mi sembrava un concetto astratto, ma ora lo comprendo meglio. La realtà è ciò che costruiamo attraverso le relazioni (amicizia, amore) e il lavoro, riflettendo ciò che pensiamo di essere. Chi si percepisce come fallito non crederà di meritare una relazione appagante, cercando situazioni in cui sarà la seconda scelta, o rimanendo intrappolato in un ambiente lavorativo insoddisfacente, giustificando la propria infelicità con mille scuse.
Esiste però una speranza, rappresentata dalle relazioni. È quasi scientifico: tendiamo a cercare un partner che ci permetta di disidentificarci. Disidentificarci significa sperimentare la libertà di essere noi stessi, senza restare imprigionati in un rigido “Io sono…”. Questo “io sono” può diventare libero e flessibile e cambiare con le nostre esperienze. Posso essere pigro, dinamico, arrendevole o tenace, generoso o riservato, ma queste definizioni non mi limitano più. Le attivo in base alle circostanze e non in maniera assoluta. Sono tutte queste cose e nessuna di esse contemporaneamente. Chi sono io dipende dal momento e da ciò che sento.
Allora, osserviamo cosa ci comunicano le nostre relazioni. Ogni esperienza ci attira verso chi ci spinge a liberare ciò che dobbiamo trasformare. Il materialista ha bisogno di una persona generosa, per comprendere che non siamo ciò che possediamo. Chi si sente fallito ha bisogno di qualcuno che gli dimostri la possibilità di avere successo nella vita, contando sulle proprie scelte. Il generoso necessita di qualcuno che gli insegni a pensare prima a se stesso, perché l’amore verso gli altri passa attraverso l’amore per sé.
Le relazioni funzionano quando riusciamo a coglierne il dono: la disidentificazione, la possibilità di superare le definizioni che ci siamo dati. L’altro, anche quando ci fa vivere il nostro peggior incubo, sta rappresentando ciò che temiamo, perché dobbiamo liberare l’attaccamento a ciò che crediamo di essere. La nostra crescita consiste nel servirci delle esperienze per rompere le nostre convinzioni, non per confermarle.. e spesso questo accade attraverso le crisi; allora ringraziamole ed usiamole per migliorarci.